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Nei luoghi della memoria, per non dimenticare
Reportage. Il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, è il “Giorno della Memoria”. Ma quante sono le tragedie da ricordare?
Non siamo i primi, il mio amico fotografo Daniele ed io, a varcare una delle soglie più infami della storia recente: nonostante la nostra levataccia, in barba al freddo pungente, una coppia ci ha preceduto, e sta già inoltrandosi sul terreno coperto dalla neve gelata.
Ci troviamo in Polonia, nel villaggio semisperduto di Oświęcim, che la criminale inventiva nazista è riuscita a rendere tristemente famoso in tutto il mondo colnome di Auschwitz.
Sono i primi giorni di gennaio, e l’inverno polacco ci maltratta con i suo gelidi 11 gradi sottozero a cui noi italiani della pianura non siamo abituati. Avremmo potuto starcene a casa al caldo, questa mattina; ma non potevamo viaggiare in Polonia senza passare di qui. Per tentare di capire, essenzialmente. Capire cosa ha spinto uomini ad odiare altri uomini fino a questo punto. E, mentre varchiamo quella soglia, mentre osserviamo le rotaie che vi portavano dentro vagoni e vagoni di persone, il freddo che ci circonda pungendoci passa in secondo piano; perché come possiamo avere freddo noi, ora, con maglioni e giacche a vento, calzettoni e scarpe ben solate, quando pochi decenni fa qui c’erano persone che giravano con addosso dei semplici vestiti stracciati?
Tutto, dentro, è enorme. Immenso. Birkenau - così si chiamava il principale campo di sterminio - è qualcosa che anche nella sua grandezza stupisce ed addolora. Le baracche ancora in piedi, mute testimoni di mille e mille vite, sono molte meno di quelle di cui ormai restano solo i caminetti in muratura, utilizzati per scaldare almeno in parte i freddi inverni dei lavoratori, o dei condannati, che spesso non sapevano di esserlo: arrivavano, venivano selezionati da ufficiali medici, e la maggior parte veniva immediatamente inviata alle docce - eufemismo che mascherava le 4 enormi camere a gas -, dove venivano rapidamente sterminati. Poi, i corpi venivano bruciati, e le ceneri ammucchiate in fosse.
4 km quadrati di dolore, questa è Auschwitz. La terra stessa sembra trasudare paura, morte. Forse è la mia impressione, forse è solo suggestione. Ma i miei passi sono silenziosi, zittiti dalla neve, e mentre vago per i sentieri, costeggiando il filo spinato che anche ora s’alza altissimo, non vedo nessuno intorno a me: anche Daniele è sparito, forse inghiottiti - lui e la sua Hasselblad - da qualche angolo particolare, da qualche scorcio che mi è sfuggito.
Ed io sono solo, e cammino; e, mentre le mie orme rimangono chiare dietro di me, mi chiedo dove mi conduce questo camminare, dove ci conduce. C’è stata e c’è diatriba, sul numero di persone che sono effettivamente morte ad Auschwitz: c’è chi dice 4 milioni, chi 1 milione. Importa davvero? La memoria di quanto è successo dovrebbe essere differente?
Questa cosa della memoria, della Giornata delle Memoria, della Giornata del Ricordo, mi lascia perplesso. Perché sembra quasi che le cose acquistino un valore per noi solo se se ne parla. Così è per gli ebrei, così è per gli infoibati. Ma, anche se non c’è nessuno nella foresta a testimoniarlo, gli alberi continuano a cadervi. E’ così in questi giorni in Darfur e in Kenia, è stato così in Uganda nel 1994 quando più di 800.000 persone - in larga parte appartenenti all’etnia Tutsi - furono massacrate in poco più di 3 mesi. E’ stato così nei territori della ex-Yugoslavia, dove ci è bastato un braccio di mare per fare, in molti casi, finta di niente. Basta non sentirne parlare, di certe cose, e velocemente le si dimentica, abbandonandole all’oblio, loro unico custode.
Mi torna in mente il mio viaggio in Cambogia, 4 anni fa. La Cambogia, Paese bellissimo del sud-est asiatico, subì nella seconda metà degli anni settanta lo sterminio di circa il 20% della sua popolazione, ad opera dei Khmer Rossi, un regime indicato a tutt’oggi dagli storici come “maoista, arricchito di primitivo tradizionalismo ed ultra-nazionalismo”.
Più di un milione di persone, spesso intellettuali o piccoli borghesi, a volte persino contadini - testimoni hanno riferito che uno dei metodi di giudizio per decidere la sorte di un uomo era se sapesse o meno arrampicarsi su di un albero - furono imprigionate e massacrate, per poi essere gettate in fosse comuni. Ora, a Phnom Penh, è possibile visitare l’ex-scuola di Tuol Sleng, rinominata dai Khmer Rossi “Uffi cio di Sicurezza 21”, dove più di 17000 persone vennero sottoposte a tortura, per poi essere eliminate (si salvarono solo in 7!); e subito fuori dalla città ci sono i Killing Fields, dove la gente bendata e legata veniva portata e, poi, uccisa a bastonate - per risparmiare i proiettili - e gettata nelle fosse comuni; un’enorme ossario allinea centinaia di teschi ed ossa, ultimi testimoni di quanto accadde qui una ventina di anni fa. Anche qui, come ad Auschwitz, file di fotografi e appese alle pareti. Persone nei cui sguardi, a volte, intuisci la consapevolezza di ciò che li aspetta; altre volte, invece, noti una tranquillità incredibile, o la fortuna dell’idiozia. Già il pensare che centinaia di migliaia di cambogiani morirono durante quei cinque anni è qualcosa di difficile per la mente; ma vedere appese ai muri le foto di centinaia di persone, catalogate con perizia ‘scientifica’ dai loro aguzzini, rende più vicina e per questo più incomprensibile una tragedia di tali immani proporzioni.
Dov’è il limite della barbarie? E c’è davvero bisogno di dedicare un giorno particolare ad un evento particolare? Phnom Penh come Auschwitz, come Srebrenica, come Gikongoro: tutti luoghi che devono far parte della memoria collettiva dell’umanità, e non appartenere ad un giorno speciale, a loro dedicato. Meglio, molto meglio, celebrarli tutti, e non dimenticarsi di loro, nel Giorno della Memoria.
[l’articolo è uscito sul numero 88 di VicenzaPiù, in edicola dal 26 gennaio 2008]
Non siamo i primi, il mio amico fotografo Daniele ed io, a varcare una delle soglie più infami della storia recente: nonostante la nostra levataccia, in barba al freddo pungente, una coppia ci ha preceduto, e sta già inoltrandosi sul terreno coperto dalla neve gelata.
Ci troviamo in Polonia, nel villaggio semisperduto di Oświęcim, che la criminale inventiva nazista è riuscita a rendere tristemente famoso in tutto il mondo colnome di Auschwitz.
Sono i primi giorni di gennaio, e l’inverno polacco ci maltratta con i suo gelidi 11 gradi sottozero a cui noi italiani della pianura non siamo abituati. Avremmo potuto starcene a casa al caldo, questa mattina; ma non potevamo viaggiare in Polonia senza passare di qui. Per tentare di capire, essenzialmente. Capire cosa ha spinto uomini ad odiare altri uomini fino a questo punto. E, mentre varchiamo quella soglia, mentre osserviamo le rotaie che vi portavano dentro vagoni e vagoni di persone, il freddo che ci circonda pungendoci passa in secondo piano; perché come possiamo avere freddo noi, ora, con maglioni e giacche a vento, calzettoni e scarpe ben solate, quando pochi decenni fa qui c’erano persone che giravano con addosso dei semplici vestiti stracciati?
Son morto ch’ero bambino
son morto con altri cento
passato per il camino
e adesso sono nel vento.
son morto con altri cento
passato per il camino
e adesso sono nel vento.
Tutto, dentro, è enorme. Immenso. Birkenau - così si chiamava il principale campo di sterminio - è qualcosa che anche nella sua grandezza stupisce ed addolora. Le baracche ancora in piedi, mute testimoni di mille e mille vite, sono molte meno di quelle di cui ormai restano solo i caminetti in muratura, utilizzati per scaldare almeno in parte i freddi inverni dei lavoratori, o dei condannati, che spesso non sapevano di esserlo: arrivavano, venivano selezionati da ufficiali medici, e la maggior parte veniva immediatamente inviata alle docce - eufemismo che mascherava le 4 enormi camere a gas -, dove venivano rapidamente sterminati. Poi, i corpi venivano bruciati, e le ceneri ammucchiate in fosse.
Ad Auschwitz c’era la neve
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.
4 km quadrati di dolore, questa è Auschwitz. La terra stessa sembra trasudare paura, morte. Forse è la mia impressione, forse è solo suggestione. Ma i miei passi sono silenziosi, zittiti dalla neve, e mentre vago per i sentieri, costeggiando il filo spinato che anche ora s’alza altissimo, non vedo nessuno intorno a me: anche Daniele è sparito, forse inghiottiti - lui e la sua Hasselblad - da qualche angolo particolare, da qualche scorcio che mi è sfuggito.
Ed io sono solo, e cammino; e, mentre le mie orme rimangono chiare dietro di me, mi chiedo dove mi conduce questo camminare, dove ci conduce. C’è stata e c’è diatriba, sul numero di persone che sono effettivamente morte ad Auschwitz: c’è chi dice 4 milioni, chi 1 milione. Importa davvero? La memoria di quanto è successo dovrebbe essere differente?
Ad Auschwitz tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano non ho imparato
a sorridere qui nel vento.
ma un solo grande silenzio
che strano non ho imparato
a sorridere qui nel vento.
Questa cosa della memoria, della Giornata delle Memoria, della Giornata del Ricordo, mi lascia perplesso. Perché sembra quasi che le cose acquistino un valore per noi solo se se ne parla. Così è per gli ebrei, così è per gli infoibati. Ma, anche se non c’è nessuno nella foresta a testimoniarlo, gli alberi continuano a cadervi. E’ così in questi giorni in Darfur e in Kenia, è stato così in Uganda nel 1994 quando più di 800.000 persone - in larga parte appartenenti all’etnia Tutsi - furono massacrate in poco più di 3 mesi. E’ stato così nei territori della ex-Yugoslavia, dove ci è bastato un braccio di mare per fare, in molti casi, finta di niente. Basta non sentirne parlare, di certe cose, e velocemente le si dimentica, abbandonandole all’oblio, loro unico custode.
Mi torna in mente il mio viaggio in Cambogia, 4 anni fa. La Cambogia, Paese bellissimo del sud-est asiatico, subì nella seconda metà degli anni settanta lo sterminio di circa il 20% della sua popolazione, ad opera dei Khmer Rossi, un regime indicato a tutt’oggi dagli storici come “maoista, arricchito di primitivo tradizionalismo ed ultra-nazionalismo”.
Io chiedo come può l’uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
Più di un milione di persone, spesso intellettuali o piccoli borghesi, a volte persino contadini - testimoni hanno riferito che uno dei metodi di giudizio per decidere la sorte di un uomo era se sapesse o meno arrampicarsi su di un albero - furono imprigionate e massacrate, per poi essere gettate in fosse comuni. Ora, a Phnom Penh, è possibile visitare l’ex-scuola di Tuol Sleng, rinominata dai Khmer Rossi “Uffi cio di Sicurezza 21”, dove più di 17000 persone vennero sottoposte a tortura, per poi essere eliminate (si salvarono solo in 7!); e subito fuori dalla città ci sono i Killing Fields, dove la gente bendata e legata veniva portata e, poi, uccisa a bastonate - per risparmiare i proiettili - e gettata nelle fosse comuni; un’enorme ossario allinea centinaia di teschi ed ossa, ultimi testimoni di quanto accadde qui una ventina di anni fa. Anche qui, come ad Auschwitz, file di fotografi e appese alle pareti. Persone nei cui sguardi, a volte, intuisci la consapevolezza di ciò che li aspetta; altre volte, invece, noti una tranquillità incredibile, o la fortuna dell’idiozia. Già il pensare che centinaia di migliaia di cambogiani morirono durante quei cinque anni è qualcosa di difficile per la mente; ma vedere appese ai muri le foto di centinaia di persone, catalogate con perizia ‘scientifica’ dai loro aguzzini, rende più vicina e per questo più incomprensibile una tragedia di tali immani proporzioni.
Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.
Dov’è il limite della barbarie? E c’è davvero bisogno di dedicare un giorno particolare ad un evento particolare? Phnom Penh come Auschwitz, come Srebrenica, come Gikongoro: tutti luoghi che devono far parte della memoria collettiva dell’umanità, e non appartenere ad un giorno speciale, a loro dedicato. Meglio, molto meglio, celebrarli tutti, e non dimenticarsi di loro, nel Giorno della Memoria.
[l’articolo è uscito sul numero 88 di VicenzaPiù, in edicola dal 26 gennaio 2008]
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Commenti
Il giorno 28/01/2008, Lidia ha scritto:
Il giorno 06/02/2008, Daniele ha scritto:
Vi segnalo il bel reportage fatto dall'altro Daniele, in viaggio con me ad Auschwitz: http://www.danielegussago.com/Reportage_inf.php?vari=9
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inserita il 26/01/2008
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totale pagine: 542
totale visite: 1412225
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