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I moai non dormono (quasi) mai
Non è difficile girarla, l'isola di Pasqua: decine di tour organizzati, su furgoncini o fuoristrada, sono disponibili ad acchiappare tutti i turisti (compresi quelli che sbarcano dalle navi di passaggio) e a portarli in giro per mezza giornata o un giorno intero, con prezzi che vanno dai 25 ai 55 dollari (pranzo escluso). C'è, poi, chi, come me, noleggia una bicicletta ed una tenda e se ne va in giro per 48 ore o più, scegliendo di assecondare i propri ritmi circadiani; ovviamente, è necessario reperire altrimenti le necessarie informazioni che le guide darebbero, ma l'abbondanza di depliant e mappe e l'utile visita al museo locale sono sufficienti a cavarsela.
La bicicletta, pur essendo nuovissima, era un pochettino fetusa, nel senso che dopo neppure due chilometri la sella ha cominciato a smollarsi ed a basculare in su ed in giù. Ma la felicità di aver evitato la pioggia che si stava per scaricare sul villaggio mi ha fatto sopportare stoicamente il dolore, ed ho cominciato la mia avventura di avvistamento del moai.
Il moai, allo stato brado, si trova in tre versioni: quello in piedi, quello sdraiato (perché mai alzato, o perché fatto cadere durante le guerre tra tribù) e quello ancora in cantiere (quello sommerso, che ho visto durante una delle immersioni, non conta, in quanto replica creata per una telenovela cilena). Come pare ovvio, quello in piedi è il più facile da avvistare: con o senza cappello, tra i 2 ed i 10 metri, solitamente posto lungo la costa e con lo sguardo rivolto verso l'interno dell'isola, faccia-di-pietra (come è chiamato nell'ambiente) risalta sul piatto paesaggio... Quelli sdraiati, invece, sono più duri da scovare: spesso, ti accorgi che la pietra leggermente squadrata e contro cui stai urinando è una preziosissima reliquia del passato solo perché un cartello ti chiede gentilmente di non camminarci sopra... Il cantiere è il luogo ideale per trovarli: perché è un'area circoscritta, e perché ce ne sono più di quanti la mente umana possa contare: in piedi, inclinati, leggermente abbozzati, legati alla roccia da un piccolo istmo (si potrà dire?) o in procinto di essere trasportati lontano, sono così tanti che il gioco locale è "Chi trova più moai in questa parete?"; ce n'è persino uno inginocchiato, solitario.
La prima notte l'ho passata ai bordi della cava, approfittando dell'ospitalità dei guardaparchi (dai quali ho ricevguto ulteriori informazioni sulle statue e sulla loro storia, oltre a lamentele sull'inefficienza dei sindacati locali); ho così potuto visitarla nel tardo pomeriggio, al tramonto e poi di nuovo al mattino (con una sbirciatina alle 5, sotto la luce della luna). Restando lì da solo, con il vento che ululava fuori dalla tenda, e queste facce con lo sguardo perso lontano lontano, ho sentito dei brividi sulla pelle (e non faceva particolarmente freddo!).
L'alba dietro i 15 moai del Tongariki, rimessi in posizione da un impresa giapponese alcuni anni fa, è valsa da sola la pena di portarsi dietro la tenda.
Salutato il tipo che, all'interno del vulcano-cantiere, sta costruendosi la canoa che userà nel laghetto durante il triatlon previsto per venerdì prossimo, ho proseguito il mio giro in senso antiorario, avvistando gente che soffia nelle prietre usandole come strumenti musicali e turisti che tentano di ricaricare le loro energie sulle pietre dell'Ombelico del Mondo (5 pietre rotonde e levigate messe in croce). Pomeriggio di meritato riposo (specie per le mie natiche) sulla bianca spiaggia di Anakena, una delle uniche due disponibili sull'isola, e notte nel boschetto adiacente (vi giuro, ho dormito saporitamente!).
Oggi, dopo una seconda immersione (vicino all'isolotto dove nel film raccolgono le uova), ho scarpinato per alcune ore lungo la costa ovest visitando altri siti statuati e un paio di grotte (la seconda delle quali, enorme e molto ramificata, gode di condizioni talmente ottimali da contenere svariati alberi da frutto). Mi manca l'antico villaggio di Orongo, sul terzo vulcano dell'isola, ed ho in programma di andarci domani, pioggia scrosciante (una fissa, al mattino) permettendo.
La bicicletta, pur essendo nuovissima, era un pochettino fetusa, nel senso che dopo neppure due chilometri la sella ha cominciato a smollarsi ed a basculare in su ed in giù. Ma la felicità di aver evitato la pioggia che si stava per scaricare sul villaggio mi ha fatto sopportare stoicamente il dolore, ed ho cominciato la mia avventura di avvistamento del moai.
Il moai, allo stato brado, si trova in tre versioni: quello in piedi, quello sdraiato (perché mai alzato, o perché fatto cadere durante le guerre tra tribù) e quello ancora in cantiere (quello sommerso, che ho visto durante una delle immersioni, non conta, in quanto replica creata per una telenovela cilena). Come pare ovvio, quello in piedi è il più facile da avvistare: con o senza cappello, tra i 2 ed i 10 metri, solitamente posto lungo la costa e con lo sguardo rivolto verso l'interno dell'isola, faccia-di-pietra (come è chiamato nell'ambiente) risalta sul piatto paesaggio... Quelli sdraiati, invece, sono più duri da scovare: spesso, ti accorgi che la pietra leggermente squadrata e contro cui stai urinando è una preziosissima reliquia del passato solo perché un cartello ti chiede gentilmente di non camminarci sopra... Il cantiere è il luogo ideale per trovarli: perché è un'area circoscritta, e perché ce ne sono più di quanti la mente umana possa contare: in piedi, inclinati, leggermente abbozzati, legati alla roccia da un piccolo istmo (si potrà dire?) o in procinto di essere trasportati lontano, sono così tanti che il gioco locale è "Chi trova più moai in questa parete?"; ce n'è persino uno inginocchiato, solitario.
La prima notte l'ho passata ai bordi della cava, approfittando dell'ospitalità dei guardaparchi (dai quali ho ricevguto ulteriori informazioni sulle statue e sulla loro storia, oltre a lamentele sull'inefficienza dei sindacati locali); ho così potuto visitarla nel tardo pomeriggio, al tramonto e poi di nuovo al mattino (con una sbirciatina alle 5, sotto la luce della luna). Restando lì da solo, con il vento che ululava fuori dalla tenda, e queste facce con lo sguardo perso lontano lontano, ho sentito dei brividi sulla pelle (e non faceva particolarmente freddo!).
L'alba dietro i 15 moai del Tongariki, rimessi in posizione da un impresa giapponese alcuni anni fa, è valsa da sola la pena di portarsi dietro la tenda.
Salutato il tipo che, all'interno del vulcano-cantiere, sta costruendosi la canoa che userà nel laghetto durante il triatlon previsto per venerdì prossimo, ho proseguito il mio giro in senso antiorario, avvistando gente che soffia nelle prietre usandole come strumenti musicali e turisti che tentano di ricaricare le loro energie sulle pietre dell'Ombelico del Mondo (5 pietre rotonde e levigate messe in croce). Pomeriggio di meritato riposo (specie per le mie natiche) sulla bianca spiaggia di Anakena, una delle uniche due disponibili sull'isola, e notte nel boschetto adiacente (vi giuro, ho dormito saporitamente!).
Oggi, dopo una seconda immersione (vicino all'isolotto dove nel film raccolgono le uova), ho scarpinato per alcune ore lungo la costa ovest visitando altri siti statuati e un paio di grotte (la seconda delle quali, enorme e molto ramificata, gode di condizioni talmente ottimali da contenere svariati alberi da frutto). Mi manca l'antico villaggio di Orongo, sul terzo vulcano dell'isola, ed ho in programma di andarci domani, pioggia scrosciante (una fissa, al mattino) permettendo.
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inserito il 03/02/2005
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