Expedition, giorno 46: Istanbul
Ho viaggiato nel freddo
Faccia a faccia con la mia
Ombra che si gettava
Nel bianco velo del tempo
Istanbul Istanbul
[Litfiba]
Sono fermamente convinto che ci siano cose peggiori, a questo mondo.
Eppure per me, qui, ora, in una città che fa parte della mia lista di città da visitare degnamente, in un paese che fa parte della mia lista di paesi da visitare degnamente, è come essere in prigione: il mio piede rotto mi blocca, mi impedisce di fare tutte quelle cose che sognavo di fare nelle ventiquattr’ore regalatemi dall’assenza di un traghetto che mi portasse subito in Italia. Siamo ad Istanbul, crocevia di razze e continenti, storie e religioni, e il nostro hotel è in pieno Sultanahmet, il quartiere forse più visitato della città, con i suoi due grandi edifici simbolo, la Moschea Blu e Hagia Sophia, i cui minareti si vedono dalla terrazza del ristorante dove facciamo colazione, dalla parte opposta del mare.
Il tour è finito ufficialmente ieri sera, oggi però molti di coloro che hanno pedalato fino a quaggiù dalla lontana San Pietroburgo parteciperanno ad una visita guidata tenuta da Burak, uno dei due nostri uomini locali. Pagherei per andarci, ma già ieri sera ho provato a incamminarmi fino al ristorante ed ho dovuto prendere un taxi dopo soli 100 metri, a causa del dolore che provavo al piede. Che nasce, principalmente, dalla compressione del muscolo ogni volta che faccio oscillare il piede; e le strade di qua, tutte tempestate di un bel acciottolato, non aiutano certo. Così loro vanno, ed io resto in hotel a sistemare un po’ di contabilità, e poi fare un po’ di pulizia nel furgone, ché dovrò coabitarci per altri tre giorni.
Verso le undici, però, non ce la faccio più, devo per forza uscire... mi preparo lo zainetto, prendo la stampella, e mi incammino, a passo lento ma inesorabile, verso la piazza in alto. Rampa dopo rampa, scalino dopo scalino, arrivo fino all’ingresso della Moschea Blu, così chiamata per le sberluccicanti piastrelle di quel colore con cui è decorata all’interno. Ma non è giornata, o meglio non è ora, ché dentro stanno pregando, quindi mi dirigo verso quella che forse (anzi, senza forse) è il più bell’edificio religioso che vedo da molto tempo a questa parte. Nata come basilica cristiana, Hagia Sophia venne in seguito trasformata in moschea, ma molti dei mosaici e decorazioni originali restarono coperti dalla malta e non furono perciò rovinati o eliminati; e, ora che i restauri sono terminati completamente, si possono ammirare nella loro bellezza: madonne e cherubini a fianco dei grandi scudi tondi di legno con citazioni in arabo dal corano, nere su sfondo dorato. Un contrasto, o forse un incontro, davvero interessante. Anche l’abside è quasi correttamente orientata verso la Mecca, l’architetto ha dovuto solo spostare leggermente la pedana da cui l’Imam fa lezione e conduce la preghiera ad Allah. I lampadari, bassi per permettere un facile accesso a quelle che un tempo erano ampolle contenenti candele, illuminano elettricamente le teste dei visitatori, ma è dall’alto, dalle finestre in alto lungo le pareti e nel tamburo della grande cupola, che entra un sacco di luce, schiarendo tutto quanto. Che differenza, dalle grandi cattedrali gotiche di una certa Europa!
Mi muovo piano, sedendomi spesso, e questo mi permette di cambiare punto di vista, di osservare l’edificio e le persone che vi si aggirano. E’ questo rapporto che rende ogni sito religioso diverso, non si tratta solo di architettura come diceva Tony durante una delle nostre lunghe conversazioni in furgone, lui costretto a non pedalare a causa del braccio rotto ed io a percorrere strade che non avevo mai visto prima cercando di non perdermi gli altri clienti. Questa chiesa, questa moschea, è qualcosa di straordinario, e non mi stupisce affatto che ci siano code di gente all’esterno pronte a visitarla.
Torno alla Blu, la preghiera è terminata e noi miscredenti si può entrare, altra coda ma si smaltisce in fretta. Dentro un sacco di gente, nulla di speciale, i soffitti sono davvero estremamente decorati ma non si percepisce lo stesso spirito dell’altra, qui c’è solo odore di scarpe e sudore e i tappeti ovunque e i fedeli che invece di pregare si mettono a scattare foto col telefonino e le turiste che vezzosamente si fanno fotografare con il velo azzurrognolo che è stato dato loro all’ingresso perché si coprano. L’avrete capito, non ci resto molto, non mi interessa. Zoppico di ritorno verso l’hotel, passando da un paio di altre stradine, e trovando quello che stavo cercando: francobolli per le mie cartoline ed alcuni regali por i miei amici. E poi dell’ottimo Ayran, lo yogurt liquido e leggermente salato, bevanda molto comune anche nei ristoranti.
In hotel siedo nella lobby, e saluto i vari clienti che passano di quando in quando; quelli della visita guidata però arrivano alla spicciolata, molti sono ancora in giro, dopo essersi presi delle bibite nel parco del palazzo Topkapi. Arriva poi l’ora della cena, concordata con i due australiani e i due neozelandesi, a cui si aggiungono Joe e la moglie Pat e Jane, la blogger del gruppo. Andiamo poco lontano, complice il mio piede, ma troviamo un posticino simpatico all’esterno e subito ne prendiamo possesso. Il cameriere è molto gentile e simpatico, e quando viene il turno di servire a David e me quello che abbiamo ordinato (un’anfora piena di carne di manzo e funghi e altra salta e noci, messa sul fuoco davanti ai nostri occhi) permette a Jane di rompere la base dell’anfora con la sua mannaia. E’ una bella cena, a colpi di ricordi e battute, con poche persone il che permette di guardarsi in faccia e sentire cosa dicono gli altri, almeno per una volta. E’ stato divertente, faticoso, logorante, interessante, educativo, formativo viaggiare con loro fino a qui; siamo, almeno in questo gruppetto, una piccola squadra, mentre intorno a noi brulica Istanbul.
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inserito il 29/09/2012
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