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Ho scalato Uluru
Uluru, la montagna rossa al centro del continente australiano, meglio conosciuta come Ayers Rock, rappresenta un punto di meditazione (e di decisione) per molti dei visitatori che lo raggiungono: gli aborigeni proprietari del terreno su cui sorge sostengono che si tratta di un sito sacro per la loro tradizione, e per questo richiedono di non scalarlo. A questo, si aggiunge la loro (genuina, credo) preoccupazione per la salute di molti degli improvvisati alpinisti: non sono rari i casi di attacco di cuore, o di caduta più o meno grave. Molti turisti cercano di convincerti, ovunque tu vada, che loro sono rimasti illuminati da queste richieste, e che anche tu dovresti ottemperarle; l'esempio più usato è quello della comparazione di Uluru con un cattedrale od una moschea, intendendo che dato che queste ultime non si scalano non si dovrebbe farlo neppure con la prima. Arrivato alla base, ricco di tutte queste suggestioni, è venuto il mio momento di decidere. La giornata era bella, il cielo limpido, e la vista di lassù doveva essere spettacolare; inoltre, questa storia della cattedrale non mi convinceva: Uluru non è visitabile all'interno, come una chiesa, quindi il paragone non regge. Rispetto la cultura aborigena, forse più di quanto molti di loro facciano (dopo tutto, ho assistito ovunque a scene di facce nere - o "black fellows", come li chiama il mio amico Sean - più o meno sbronze e inclini alla violenza - verbale o fisica - nei confronti di loro consanguinei o di semplici passanti); ma ritengo che, se davvero agli aborigeni importasse di questo sito, lo chiuderebbero (è nelle loro facoltà, secondo la legge australiana): la scusa che "resta aperto per permettere a tutti di capire e di decidere" vale tanto quanto "lo teniamo aperto perché molti visitatori vengono qui solo per scalarlo, e se fosse chiuso non visiterebbero il parco"; il fatto che l'ingresso al parco costi 25 dollaroni, e che il resort (indovinate chi lo gestisce?! Bravi!) sia l'unica soluzione possibile per alloggiare nei dintorni, mi rendono molto sospettoso... Insomma, tutto quanto non è proprio chiaro e limpido, quindi si torna alla mia decisione, senza influenze esterne.
Decido che vado.
I primi 20 metri, abbastanza ripidi, sono privi di sostegni o ausilii, sì da scoraggiare i meno attrezzati; si prosegue poi per un'erta salita, con una catena che permette di tirarsi su (un pò come quel famoso caffè...). Dopo una gran faticata, ed un muscolo indolenzito (gli altri si faran sentire tutti il giorno dopo, con gli interessi), raggiungo una prima zona di sosta; quando smetto di ansimare, riparto per il secondo tratto, meno tirato ma molto ondulato (non crediate che la cima sia piatta: è tutta una serie di creste e valli, mediamente di 1-2 metri, rosse che più rosso non si può.
Intorno, il deserto: solo le cime delle Olgas, e qualche altro monte in lontananza, spuntano da un territorio brullo e sterminato.
Rimango su più degli altri scalatori (credetemi, sono davvero molti quelli che salgono fin qui!), faccio un paio di foto e poi comincio la ridiscesa, ben più ardua (gli scarponi si rendono utili, in questo caso).
Cosa mi ha lasciato, potreste domandarvi... una visione del territorio che una volta era riempito di sabbia (fino alla cima dei monti! più di 300 metri!); tante domande, sulla correttezza di quello che ho fatto e sulle motivazioni estrinseche ed intrinseche; tanti dubbi, sulla realtà delle credenze locali, e sulla consistenza economica delle stesse; e, ovviamente, tanta (ma tanta!) "carne greva".
Decido che vado.
I primi 20 metri, abbastanza ripidi, sono privi di sostegni o ausilii, sì da scoraggiare i meno attrezzati; si prosegue poi per un'erta salita, con una catena che permette di tirarsi su (un pò come quel famoso caffè...). Dopo una gran faticata, ed un muscolo indolenzito (gli altri si faran sentire tutti il giorno dopo, con gli interessi), raggiungo una prima zona di sosta; quando smetto di ansimare, riparto per il secondo tratto, meno tirato ma molto ondulato (non crediate che la cima sia piatta: è tutta una serie di creste e valli, mediamente di 1-2 metri, rosse che più rosso non si può.
Intorno, il deserto: solo le cime delle Olgas, e qualche altro monte in lontananza, spuntano da un territorio brullo e sterminato.
Rimango su più degli altri scalatori (credetemi, sono davvero molti quelli che salgono fin qui!), faccio un paio di foto e poi comincio la ridiscesa, ben più ardua (gli scarponi si rendono utili, in questo caso).
Cosa mi ha lasciato, potreste domandarvi... una visione del territorio che una volta era riempito di sabbia (fino alla cima dei monti! più di 300 metri!); tante domande, sulla correttezza di quello che ho fatto e sulle motivazioni estrinseche ed intrinseche; tanti dubbi, sulla realtà delle credenze locali, e sulla consistenza economica delle stesse; e, ovviamente, tanta (ma tanta!) "carne greva".
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inserito il 08/08/2004
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