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The boy in the bubble

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Il Guatemala sorge nel punto di incontro di tre placche tettoniche, il che spiega la presenza di una trentina di vulcani e la frequenza con cui avvengono i terremoti. Purtroppo, spesso le esigenze pratiche portano a mettere in secondo piano la cosa: la necessità di avere a disposizione buone riserve d’acqua è probabilmente la ragione per cui le capitali (4, a quanto mi dicono) che si sono succedute nel tempo sono state fondate più o meno nella stessa regione montuosa, e successivamente distrutte (non l’ultima... non ancora, almeno...) da tremende scosse sismiche.

A volte, però, dalle ceneri rinasce qualcosa. E’ il caso di Antigua, o meglio La Antigua ("capital", sottinteso), divenuta forse la meta principale per i turisti che visitano questo paese. Sicuramente, molte ragioni ce le ha: strade di sassi e acciottolato, antiche case coloniali colorate vivacemente, chiese più o meno distrutte da vari terremoti che non sono però riusciti a raderle al suolo, e alcuni vulcani nei dintorni, tra cui due di quelli potenzialmente attivi (Fuego e Pacaya).
La gente, come mi conferma Dobrin, ragazzo bulgaro in viaggio che qui si è fermato per un mese lavorando in un ostello, viene per stare qualche giorno e poi si ferma settimane, sentendovisi a proprio agio. Una "bolla" di protezione e facilità, di quelle che ho già visto in molti altri paesi (due esempi per tutti, recenti: San Cristobal de Las Casas, in Messico, e Cayo Caulker, in Belize), dove uno perde lentamente la cognizione di quello che c’è fuori e comincia a credere che la vita come la vede all’interno della bolla sia uguale a quella che c’è fuori: tutto bello, tutto comodo, tutto pulito, tutto facile. Un po’ di musica reggae, gli hotel ed ostelli con le amache ed il bar sulle terrazze, le persone che ti sorridono per la strada, ristorantini ad ogni angolo con piatti che spesso dimenticano la tradizione locale per volgersi verso l’Italia, l’Argentina, l’Asia... è facile entrare nella bolla e non volerne più uscire...

Di fascino, come dicevo, la città ne ha da vendere. Dal pianerottolo fuori dalla mia stanza, scelta in un hotel quanto più possibile lontano dal centro nevralgico e pulsante, si intravedono i vulcani, anche se le condizioni meteo di questi giorni non sono particolarmente buone e spesso le nubi si mettono di mezzo, dispettose. Il mercato non è distante, ed è dove consumerò la maggior parte dei miei pasti, ogni volta trovando qualche posticino nuovo nell’intrico labirintico dei corridoi formati dalla bancherelle. Le rovine ci son tutte, anche se a quanto pare hanno deciso di applicare ad ognuna un biglietto di ingresso neppure tanto economico; decido di guardarle tutte dall’esterno, scrutandole da ogni angolo, tanto per cambiare: son stufo di spendere soldi per vedere pietre sgretolantisi (o sgretolate)... e, poi, è più interessante la vita nelle strade, quella che non si fa irretire dai facili guadagni che accompagnano, da sempre, l’arrivo dei turisti.

Dopo un sabato mattina passato in perlustrazione, incontro Dobrin nell’ostello in cui lavorerà ancora per qualche giorno, e al sole sulla terrazza parliamo di tante cose, dei suoi progetti, dei miei... quando deve riprendere il suo turno, io vado ancora in giro, scoprendo la chiesa della Merced e la strada pedonale principale, con il suo arco che l’attraversa ed i suoi suonatori ambulanti, ed i turisti che passeggiano fermandosi ad ogni negozietto di souvenir; poi, all’istituto di cultura spagnolo, assieme a vari bambini locali e vari adulti stranieri, mi godo una proiezione di Ratatouille, rigorosamente in castillano. Una visita alla "bodega familiar", un grande supermercato in centro, mi fornisce i nachos, l’avocado, la salsa ed il formaggio di cui necessito per imbastire un succulento pasto che consumo sul pianerottolo di cui sopra, mentre la notte scende sui tetti della città e per le sue strade. Torno all’ostello di Dobrin, fa servizio al bar insieme ad una ragazza americana, c’è qualche persona ma pare una serata fiacca, abbiamo tempo di parlare del più e del meno al banco mentre ci scoliamo io una soda con limone e loro qualche birra (potenza dell’assuefazione all’alcool!); quando ci dividiamo a mezzanotte, fissiamo appuntamento per l’indomani pomeriggio per andare ad un concerto un po’ fuori città, in un posto dove lavora un’amica del bulgaro.

Il meteo ha previsto pioggia per la domenica, così ho deciso di non fare la programmata escursione al vulcano Pacaya; in realtà non cade una goccia, ma è comunque molto nuvoloso, quindi ho fatto la scelta giusta. Il tempo lo impiego visitando alcuni dei posti solo intravisti il giorno precedente, ed è solo verso l’una che raggiungo il mio amico bulgaro, solo per scoprire che la notte (dopo che ci siamo salutati) lui e la tipa sono andati avanti a sbevacchiare e quindi ora è praticamente catatonico per il mancato sonno... concerto saltato, poco male, nuovo appuntamento per la sera e io vado a scoprire un’altra parte della città, con le sue strade dritte che si incrociano a scacchiera, le donne che fanno il bucato nei lavatoi mentre i figli giocano nei pressi, la fontana in mezzo al parco centrale con l’acqua che esce dal seno delle donne che vi sono raffigurate. Al calar della sera faccio un salto in hotel, giusto per rinfrescarmi e riposare un attimo, l’appuntamento è per le venti di nuovo nel parco... Dobrin arriva puntuale, ma mi rivela di voler tentare un approccio sulla sua collega barista, si scusa di non poter venire a cena ma spera che io capisca... certo che capisco: tira più un pelo di f##a che un carro di buoi, come dice la voce popolare. Lo saluto cordialmente, mentre in cuor mio medito su come bastonarlo (me l’avesse detto fin dall’inizio, non perdevo mezza domenica ad aspettare lui, no?!), e mi vado a cercare un posto dove mangiare.

Lunedì mattina, sveglia alle cinque e mezza (ma è ancora vacanza? no, perché non mi pare molto...) per andare con una decina di altre persone ed una guida a scalare il vulcano Pacaya. E’ nuvoloso come ieri, anche se di meno, ma alcuni disguidi (dovuti all’agenzia organizzatrice) ci fanno arrivare alla base di partenza in ritardo sulla tabella di marcia, e quindi acceleriamo un pochettino il ritmo di ascesa. La camminata è semplice, una volta che si è appreso come camminare sul terreno coperto di lava ormai ridotta in ciottoli e polvere dal continuo passare di escursionisti; arriviamo al punto più alto (al cratere non è permesso andare, e comunque non ci si vede niente perché è completamente tappato) in un’oretta, poi arrostiamo delle mash-mallow e dei sandwich in alcuni anfratti da dove esce un bel calore, e infine visitiamo all’interno alcune parti di tunnel lavici non collassati come in altri punti. Quando stiamo per cominciare la discesa, il cielo finalmente ci da una tregua e il vento soffia via le nuvole, permettendoci di vedere la cima di questo vulcano e di quello chiamato Agua. Arriviamo ad Antigua che sono le dodici e trenta, decido che il fatto che il check-out dall’hotel sia all’una è un segno del destino, e che voglio tentare di uscire dalla bolla; riesco pure a farmi una doccia, poi riempio gli zaini e raggiungo il terminal dei bus, dove ne prendo uno che mi porti via...


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inserito il 20/02/2012
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