Niente molo di San Blas
C’è questa canzone del gruppo messicano Manà, En el muelle de San Blas, che mi è sempre piaciuta molto (leggetevi la traduzione per capire almeno in parte quello che evoca), fin da quando l’ho sentita per la prima volta in Venezuela, ormai quasi 10 anni fa. Quando questo viaggio si è concretizzato, una delle prime mete che ho posto sulla mia mappa è stata proprio San Blas, sulla costa del Pacifico. Speravo di andarci, di vedere quel molo, magari come parte finale di un percorso che mi avrebbe portato a fare trekking la Barranca del Cobre, a sbronzarmi con un goccio di tequila e finalmente a sentire il canto delle balene nella baia della Baja California.
Speravo; ma tre mesi sono tanti, e le cose cambiano, e i tempi e gli spazi si allungano e si accorciano... ed eccomi qui, quindi, a Città del Messico, a meno di cento ore dalla partenza per l’Italia, e non c’è più tempo per le balene, per la tequila e neppure per il molo di San Blas. Ma non importa, perché tanto è sempre bene lasciare qualcosa per la prossima volta che si torna, giusto?!
Mi accoglie di nuovo Socorro, che avevo contattato nei giorni scorsi; ma va un po’ di fretta, nel senso che io sono partito più tardi del previsto da Poza Rica e sulla strada il bus ha trovato un bel po’ di traffico, e lei deve andare a lavorare, quindi mi abbraccia, mi ragguaglia sulle ultime novità e poi mi da le chiavi di casa e se ne esce. Una buona doccia calda, lo smontaggio dello zaino prima che le cose che vi ho inserito lo facciano esplodere, un’occhiata alla posta su internet e poi esco anch’io, ché ho una fame da lupi e voglio cominciare la ricerca degli ultimi regali. Mi sazio ad una bancherella per strada, poi cammino fino all’arena Mexico dove sta per cominciare un’altra serata di lotta libera; i souvenir e le ciumbate legati a questo bizzarro sport sono tantissimi, ma i mantelli e le maschere costano troppo rispetto alla loro qualità, quindi decido di posporre l’acquisto per il mio nipotino e vado verso la statua dell’angelo, dove ho appuntamento con la mia ospite. Quando arriva, le propongo di cenare in una delle locande che ho visto nei pressi della rotonda di Insurgentes, uno spiazzo ricavato intorno ad una fermata della metropolitana ad un livello inferiore rispetto al piano stradale circostante; accetta, ma dobbiamo girare un po’ prima di trovarne una non piena e che proponga qualcosa di diverso dai soliti taco o similari. E’ un buon segno: le locande affollate da locali indicano che il cibo è sicuramente non malvagio, non caro e, soprattutto, fresco. Dopo cena reincontriamo il suo amico David e un’altra ragazza, ed andiamo in un paio di locali, simpatici ma troppo rumorosi per i miei gusti, e davvero non riesco ancora a seguire conversazioni in spagnolo solo leggendo le labbra degli altri... Verso l’una di notte, quando ormai sto cedendo al sonno, mi danno uno strappo fino a casa, mentre loro vanno ancora fuori per... cenare! Ebbene sì, non ci volevo credere quando me l’ha raccontato il giorno dopo: sono andati a cenare nelle prime ore del mattino! Contenti loro...
Il sabato mattina lo passo, inutilmente, a inseguire mercatini che mi sono stati suggeriti da varie persone; inutilmente, perché alcuni sono chiusi da secoli, altri sono vere fiere della cianfrusaglia brutta ed inutile, altri ancora sono ripetitivi al massimo, paiono quasi monomerci; raggiungo allora il centro, e vicino allo zocalo trovo finalmente una copia originale del Popol Wuj, il libro che racconta le leggende della creazione Maya. A mezzogiorno, poi, raggiungo una fermata della metro da cui parte un’escursione a piedi per visitare delle pulquerie; organizzata da un’associazione di persone che vogliono ripristinare il buon nome e la tradizione del pulque, ci porta - esclusivamente con mezzi pubblici antichi come il filobus - a visitare tre di queste locande e a provare differenti miscele e sapori della bevanda lievemente alcoolica con cui avevo già fatto conoscenza a dicembre - senza che mi fosse particolarmente piaciuta. In realtà, scopro ora, tutto dipende dalla fermentazione, che la rende più o meno consistente, e dai sapori con cui viene miscelato: per esempio, il mango mi aveva disgustato, la fragola non è male, ma con i pinoli è davvero dissetante. La visita dura tre orette buone, principalmente per la lunghezza degli spostamenti da un locale all’altro, ed è quindi primo pomeriggio quando lascio la parte del gruppo che ancora si sofferma a degustare nell’ultima pulqueria e ritorno alla basilica di Guadalupe, che si trova nei pressi, per cercare qualcosa da portare in Italia al mio devoto cugino Andrea. Santini e santoni qui abbondano, ma tutto è di cattivo gusto, tranne qualcosa di dimensioni tali da non consentirmi di trovargli posto sicuro nel bagaglio; alla fine, decido per un portachiavi, carino e con un’immagine della vergine un po’ colorata e fumettata ma sicuramente molto simpatica.
Ripunto allo zocalo, e più precisamente alla zona delle librerie intorno al palazzo delle Belle Arti, sperando di trovare un libro sui murali di Rivera che ormai sto cercando da mesi; non ho fortuna, ma almeno sono al riparo della bella volta del palazzo quando scoppia un forte temporale seguito da una grandinata che imbianca la città. Qui la neve non la vedono spesso (anzi, forse, mai), perciò il contatto con la coltre bianca rende tutto e tutti un po’ surreali: gente che fa pupazzi di grandine, bambini che giocano a palle di grandine, venditori ambulanti che si ritrovano con le loro statuette ricoperte di un velo bianco, pozze e pozzanghere ovunque... mi diverto a scattare un po’ di foto di questa anomalia, poi Socorro mi chiama dicendomi che l’appuntamento che avevamo per la sera è saltato e che ci vediamo a casa sua. Ritorno, e lei sta per uscire di nuovo per andare con la madre alla festa di compleanno della nuova moglie del padre; dato che le servono le chiavi, io me ne resto in casa, cucinandomi una cenetta con quello che ho comprato al supermercato mentre tornavo, e poi per una volta tanto andando a letto ad un’ora decente.
Anche perché al mattino abbiamo già un piano: andare a cercare il peperoncino per mio cognato e dei piccoli sombreri che vorrei portare ad altre persone. Insieme con l’amica di Socorro conosciuta due giorni prima, puntiamo quindi al mercato della Merced, che di domenica è ancor più ricco degli altri giorni; nei suoi labirintici passaggi troviamo sia chi mi vende il peperoncino sia una maschera e mantello da lottatore per Marco, oltre a delle bellissime "pignatte" che però non saprei dove mettere (ma almeno una foto con quella a forma di Darth Vader la facciamo!). Raggiungiamo poi il parco di Chapultepec, dove in teoria dovrebbe esserci un picnic organizzato da un gruppetto di CouchSurfer; in realtà, dovrei dire "disorganizzato", dato che quando arrivano sono solo in tre, non hanno cibo con loro e neppure le biciclette che dovevano usare come mezzo di trasporto. Poco male: compriamo un po’ di cibo alle bancherelle di fronte al museo di antropologia, ci sediamo sull’erba e cominciamo a parlare e mangiare.
Prima che ci venga l’abbiocco postprandiale riprendiamo il nostro giro, salutiamo tutti e puntiamo alla bolgia, ovvero la parte principale di Chapultepec, che tutte le guide sconsigliano di visitare alla domenica. Un motivo c’è, ovviamente: tutte le famigliole della città e dintorni vi vanno a passare la festa assieme. La nostra missione è semplice: trovare i sombrerini... semplice, ma infruttuosa, dato che non ne troviamo da nessuna parte (e sì che di venditori ambulanti di ciumberie ce n’è a profusione!)... però, però... una dritta, dataci da un fotografo di quelli che ti ritraggono seduto sul finto asinello con un finto vestito da finto messicano, ci mette sulla buona strada: in un altro mercato, di artigianato, finalmente troviamo i cappellini, e riesco a contrattare un prezzo di cui si stupisce persino Socorro (ah, queste donne... shopping, shopping, ma poi quando si tratta di tirare sul prezzo non son mica capaci!). Il mercato è molto bello, me l’appunto mentalmente per un’eventuale visita futura, quando avrò forse più spazio nel bagaglio e più denaro nel portafogli. Mentre raggiungiamo di nuovo il centro, nuvoloni neri si addensano nel cielo e noi, memori del diluvio gelato del giorno precedente, andiamo a visitare un bel museo d’arte tradizionale, tra le cui collezioni ve n’è una molto bella di creazioni oniriche: statuette, coloratissime e di varie dimensioni, che rappresentano esseri fantastici, frutto dei sogni degli artisti che le creano. Quando finalmente smette di piovere (perché, ovviamente, ha piovuto alla fine), con un’altra amica di Socorro andiamo fino al quartiere di Coyoacán, dove gustiamo il famoso caffé con churros e poi assistiamo ad uno spassoso spettacolo di un clown di strada, che prima fa ridere parlando dei problemi del Messico moderno e poi riracconto la favola di Cappuccetto Rosso utilizzando alcuni spettatori come attori (io, quando cerca un personaggio alto per fare il cacciatore, mi abbasso ad allacciarmi una scarpa inprovvidamente slacciatasi...).
Insisto con Socorro perché si possa cenere con sua madre a casa, mi pare brutto non vederla neppure una volta in quattro giorni mentre sono ospite a casa sua; passiamo perciò al supermercato a comprare un po’ di cose, che poi Socorro cucina per tutti e tre. E’ una serata allegra, passata con persone che ormai sono qualcosa di più che semplici incontri in un paese straniero, come mi è capitato con molti altri; domani a quest’ora sarò già in volo per l’Europa...
Arriva l’ultimo giorno, e mentre Socorro è al lavoro io vado a vedermi un paio di costruzioni (il teatro Insurgentes e il Polyforum) decorate con grandi mosaici e murali, poi a confermare il mio volo in un’officina AeroMexico e infine alla ricerca degli ormai maledetti semi di Jabanero, che trovo alla fin fine in un grande supermercato per la casa (l’equivalente di uno dei nostri Bricocenter e similari). Poi, un’altra volta a pranzare assieme, nel ristorantino dove mi aveva portato la prima volta, quello dei suoi amici; e per fortuna che è quello, perché ormai il denaro messicano nel mio portafogli si è quasi esaurito, e non ho certo intenzione di cambiare cinque dollari (primo, perché non li ho, e secondo perché la commissione me ne mangerebbe via una bella fetta) per pagarmi un sontuoso pranzo. Verso le 14 torniamo a casa, dove mi metto a fare con molta cura i bagagli, cercando di stipare tutto quello che riesco nello zainone grande, mentre i regali più delicati trovano posto nello zainetto che porterò come bagaglio a mano; mi ci vuole quasi un’ora per quest’operazione di alta chirurgia, e solo dopo che le campane della vicina chiesa hanno suonato le tre esco per raggiungere la stazione della metro, con Socorro che mi accompagna. Ci salutiamo calorosamente, poi io supero i tornelli e prendo il primo dei treni che mi porta verso l’aeroporto...
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inserito il 12/03/2012
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