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L'infinito bisogno nella ricerca del Senso

Chiuso tra cose mortali

(anche il cielo stellato finirà)

perché bramo Dio?

(Giuseppe Ungaretti)


Fra le tante, potenzialmente infinite, Tradizioni antiche, una afferma che, fra gli 'strumenti' antecedenti la Creazione, Dio forgiò le lettere dell'alfabeto, e con esse scrisse la Verità che, successivamente guardando, tradusse nella realtà profana del tangibile. E di sequenze alfabetiche ne produsse due: la prima, quella 'astratta' dell'ordine che si narra nelle scuole (aleph bet gimel dalet...); la seconda, quella concreta d'uso, che seguì nella costruzione di 'ciò che è' (bet resh aleph shin...). Perché ciò sia, solo Dio può sapere. Fatto sta che, fra le possibili interpretazioni, se il mondo si basa sulla lettera bet, quella binarietà simbolica che regge il reale (alto-basso, freddo-caldo, bello-brutto, vero-falso) e da cui scaturisce quel dinamismo del divenire che si dà nell'allegoria eraclitea della guerra "madre di tutte le cose e di tutte regina" (fr. B 53), alle sue spalle si dis-vela (ossia, in questo senso, si nasconde due volte) la aleph, simbolo di quell'Uno da cui tutto promana e in cui la fine dei tempi consumerà la restaurazione (il tikkun, direbbe l'ebrasmo nella cui lingua si da voce a questa narrazione), il ritorno al Vero Senso, a quell'Alter assoluto in cui le binarietà della nostra logica umana si risolvono in un itinerarium mentis in Deum che restituirà, appunto, il finale ricongiungimento della goccia al mare.
Questa strana, curiosa "storia" appare ancora più strana se si considera che - esempio emblematico di quanto andiamo dicendo - Isaac Newton, mentre si guadagnava fama imperitura come uno fra i padri della scienza moderna, parallelamente compulsava gli antichi testi della Tradizione cercando, proprio nell'alchimia delle lettere, il Senso della Creazione, mosso da quell'atavica concezione (nella nostro Occidente è almeno da ricordare Pitagora) che tutto è numero, ossia misura e relazione ("Con trentadue Vie meravigliose di saggezza", apre il Sefer Yetzirah, considerato fra i testi mistici più potenti, addirittura attribuito, nella Tradizione, alla mano dell'Adam Qadmon).


In Dio tutto è possibile, anzi: tutto è. Al di là di tempo e spazio, al di là delle opposizioni funzionali del Sistema-Universo. Al di là, come già si disse, del bene e del male. E nell'infinita (o, meglio, indefinita, forse) possibilità del noumeno, la Verità, sinfonica nella manifestazione, è una, come il valore sacro dell'Aleph: che è insieme, "rettificato" in altra forma, segno del due nell'uno (l'asse centrale e le due polarità ai lati), e che, scomposto e ricalcolato con l'arte della gematria, quasi alchemicamente vale al medesimo tempo, quantizzato in forma numerica, 1 e 26 (stesso valore del Grande Nome impronunciabile, e - fra le 'strane' coincidenze che tanto avrebbero affascinato un contemporaneo Newton - numero delle dimensioni dell'Universo, secondo una delle teorie più affermate).


Non c'è logica in tutto questo, è chiaro. L'unico senso tentabile è nell'ineffabilità mistica, che sembrerebbe l'opposto della scientificità del sapere oggettivo. Entrare in tale mondo interpretativo è, per utilizzare una terminologia contemporanea, un "salto quantico" di concezione. L'Infinito, uno e solo, contiene il Tutto, nelle sue in(de)finite possibilità: come i libri della "Biblioteca" di Jorge Luis Borges, che non a caso dedicò all'Aleph uno dei suoi più famosi racconti. E', per utilizzare una interpretazione altra, ma non diversa, lo spegnimento della facoltà di Manas (la mente logico-formale, la 'misuratrice', quel pensiero - che etimologicamente è 'ponderare', dare, misurare il peso delle cose - che è il modo tutto umano di venire in contatto e interpretare il Mondo, e scandagliare le Sue Cause, anche, perché no, prime) per permettere l'illuminazione di Buddhi, che nell'intuizione globale (nel suo etimologico 'vedere dentro' la natura più intima della Realtà) com-prende la Vita nel suo svolgersi in perfetta, sinergica unità.


Resta una domanda, la vera domanda, che è poi da sempre 'in principio': esiste il Senso, solo perché l'uomo ne ha bisogno? Esiste l'Infinito, solo perché esso sembrerebbe quasi biologicamente iscritto nella sua natura? Nella mente dell'uomo, in cui reale e razionale si rincorrono e si relazionano come in un dipolo, da un lato la più impervia speculazione sugli infiniti e le loro grandezze e dall'altra i drammi più incredibili (di 'strane' stelle gialle sulle giacche) mostrano la alogicità del Mondo e della Vita, e di quel Pensiero che, materializzandosi nel mistero dell'infinità discreta (nella capacità del calcolo, prima ancora che in quella, chiomskiana, della facoltà del linguaggio) li informa, l'uno e l'altra: una a-logicità che non è per niente il-logica, ma si dà come ulteriore evidenza del paradosso in cui viviamo, kantianamente vincolati nel basso delle nostre radici alla limitatezza materiale, e liberi, tramite le nostre fronde, di aspirare al salto d'ordine - anche solo cantorianamente parlando - superiore (Natura aliquando facit saltus). In un dramma che si consuma ogni istante, dettato dalla consapevolezza, più o meno cosciente, che Dio (ossia l'Aleph, ossia l'Infinito) è nealirebla, almeno sul piano profano di esistenza delle polarità di bet.


Saggio scritto da Davide Astori, professore all'Università di Parma.